L'UOMO SENZA PAURA
Annual 2004
Di Carlo Monni
Il
mio nome è Ben Urich e faccio il giornalista, narro le storie che avvengono in
questa città. Storie di violenza e coraggio, di rari trionfi e di più frequenti
tormenti, ma, forse, non ne avete mai sentita una come questa, forse questa
storia è diversa da tutte le altre che avete finora letto, forse.
Cominciò
tutto qui, nella Palestra Fogwell, nel quartiere di New York chiamato Hell’s
Kitchen, in un giorno d’aprile di tanti anni fa. In una squallida stanzetta
sopra la palestra, quattro uomini stavano giocando a poker, del tutto ignari
della sorpresa che li attendeva.
-Sveglia Porky!- disse
un uomo col cappello calato sugli occhi ed una sigaretta penzolante dalle
labbra –Non abbiamo tutto il giorno, il Sistematore può arrivare da un momento
all’altro.-
Quello chiamato Porky, il classico tipo del lottatore
ottuso, in boxer ed asciugamano gettato sulle spalle, fece una smorfia:
-Sta calmo Sam! Io non
corro per nessuno!-
.-A chi vuoi darla a
bere?- ribatté quello chiamato Sam, giocherellando con delle monete –Sai
benissimo che quando il Sistematore fa schioccare le dita, noi tutti scattiamo,
se non vogliamo guai.-
Un terzo, con i capelli rossi e la camicia righe si alzò,
stirandosi le braccia.
-Sam ha ragione.
Comunque sono un po’ al verde. Smettiamo per un po’ finché…- s’interruppe
bruscamente, udendo qualcosa alle sue spalle -… ehi cos’è questo rumore?-
Tutti si girarono nella direzione da cui era venuto il
rumore e si trovarono di fronte …
-Per la malora, cos’è
questa roba?- esclamo Porky.
Quella roba ero io, con indosso il mio costume giallo,
nero e rosso, con una grande D sul petto e delle corna da diavolo sulla
maschera.
-Sei venuto nel posto
sbagliato, amico! A noi non servono lottatori in costume!- disse Sam.
:Ho già visto degli
abiti strampalati, ma mai così!- commentò un altro dei quattro, anziano, calvo
e con gli occhiali a fondo di bottiglia..
-Ma guarda che stazza!-
esclamò quello dai capelli rossi –Non scappare amico… forse il Sistematore
potrà trovarti un’occupazione!-
-Proprio quel che
intendo fare!- risposi –Quando avrò finito con lui, il Sistematore non potrà
più occuparsi di nessuno!-
-Ehi, questo tipo qui va
in cerca di guai!- commentò Porky –Al Sistematore non piacerà di certo!!-
-Dev’essere un
pazzoide!- fu il secco commento di Sam.
-Fa un po’ volare questo
buffone in costume, Porky!- disse quello calvo.
-Sarà un vero piacere,
ragazzi! Ho voglia di fare un po’ d’esercizio!- Così dicendo, quello chiamato
Porky si mosse stringendo i pugni e si gettò contro di me, ma io non ero
rimasto fermo e, gettandomi a terra, frenai lo slancio di Porky puntandogli i
piedi contro il petto.
-Ehi! Cosa diav…!!-
esclamò Porky.
-È l’esercizio che vuoi
tu grassone…- risposi ridendo -… sei venuto proprio dal tipo giusto!-
Mentre
dicevo queste parole, lo afferrai per le caviglie e cominciai a farlo roteare.
-Fermo! Smettila!
Lasciami andare!- urlò Porky.
Sempre sorridendo risposi:
-Ne sarò ben lieto
amico!- lo lasciai andare improvvisamente e lo proiettai contro i suoi amici,
come una palla da bowling contro i birilli, sbattendoli tutti a terra. –Ecco
fatto! È questo che volevi?-
Quello di nome Sam si mosse per afferrare un fucile
appeso alla parete, esclamando:
-Amico, adesso sì che ti
sei messo veramente nei guai! Aspetta solo che prenda quel fucile!-
-Mi spiace bimbo!-
ribattei –Ma devi imparare ad essere più veloce!- estrassi dalla fondina che mi
pendeva al fianco il mio bastone e lo lanciai contro l’uomo –Se prendi un
fucile, immagino di poter usare un semplice manganello!- il bastone colpì la
mano di Sam, strappandogli l’arma –Ecco! Non c’è senso a sprecare delle costose
pallottole contro una nullità come me!-
Porky si lancio contro di me, cercando di prendermi alle
spalle, urlando:
-Maledetto! Ti insegnerò
io a non far più tanto il furbo!-
Ma io lo avevo anticipato, saltando in alto ed
evitandolo.
Tieni a freno la lingua,
Porky!- dissi ridendo –Pensa a che perdita sarebbe quella per il mondo!-
Quello dai capelli rossi mi lanciò contro una sedia esclamando:
-Smettila di perdere
tempo, Porky! Mi occuperò io di questo e a modo mio!-
Io evitai la sedia facilmente e replicai:
-Non contarci amico!-
-Quello calvo intimò:
-Circondatelo! Non può affrontarci
tutti in una volta!-
Quello dai capelli rossi assentì:
-Ora tocca a noi… mentre
sta per prendere fiato!-
-Addosso!- urlò Porky1-
Ma io ero già saltato sopra le loro teste, afferrandomi
ad uno degli anelli che pendevano dal soffitto della palestra e da lì, sferrai
loro potenti calci e poi, gettandomi loro addosso, li stesi definitivamente,
non risparmiando le battute:
-Voi gente avete proprio
una strana maniera di mettere a proprio agio un ospite! Infatti, se non sapessi
bene come stanno e cose… comincerei a sospettare che non sono esattamente il
benvenuto qui!-
Alla fine quello di nome Sam si dichiarò sconfitto e si
rivolse a me, dicendo:
-E va bene amico… le
abbiamo prese! Ora dì un po’ chi sei e cosa vuoi?-
A terra, Porky era ancora incredulo:
-Non è possibile!
Nessuno può battersi così! Deve servirsi degli specchi!-
Senza nemmeno mostrare un po’ di fiatone risposi con
tranquillità:
-Ora che abbiamo finito
di giocare, rimarrò da queste parti fin quando non avrò trovato il Sistematore!
In quanto a chi io sia, chiamatemi semplicemente… Devil!-
E quella fu la mia prima uscita in costume.
Si, quello poteva essere l’inizio della storia di Devil, ma non di quella dell’uomo chiamato Matthew Michael Murdock.
Ma
quando comincia questa storia? Forse in un giorno lontano di quando aveva 15
anni e tornando da scuola, vide un cieco che attraversava la strada
inconsapevole dell’arrivo di un camion il cui autista non riusciva a frenare.
Matt non ebbe esitazioni, corse e saltò in mezzo alla strada, riuscendo a
spingere il cieco fuori dalla traiettoria del camion. Ogni buona azione ha un
prezzo, però. Quello pagato da Matt fu il prendersi in faccia un cilindro di
metallo caduto dal camion, un cilindro che si aprì. Il bagliore che ne uscì fu
l’ultima cosa che Matt vide in vita sua.
Materiale radioattivo, così dissero, ma non specificarono esattamente di cosa si trattasse e né Matt, né suo padre seppero mai come mai un camion trasportasse scorie radioattive nel bel mezzo della città, attraverso il quartiere di Hell’s Kitchen, e perché non fossero fatte domande imbarazzanti, fu pagato un sostanzioso indennizzo, sufficiente a pagare tutte le cure necessarie a Matt. Perché, vedete, Matt era diventato cieco, ma non era il solo cambiamento nella sua vita, ce n’era un altro di cui pochissimi erano a conoscenza.
2.
Immaginate di svegliarvi e scoprire di aver perso la vista, ma che il resto
del mondo intorno a voi è impazzito. I suoni, gli odori, tutte le percezioni
dei restanti quattro sensi moltiplicate all’ennesima potenza, quale sarebbe la
vostra reazione? Riuscireste a restare sani o perdereste la ragione? Matt era
solo e disperato nella sua stanza d’ospedale quando entrai io. Il mio vero nome non ha alcuna importanza,
come la mia vita prima che pronunciassi i voti. Ciò che conta è che, oggi, come
allora, il mio nome è Suor Maggie ed è il mio dovere confortare gli afflitti. E
tutto quel che m’importava di sapere è che Matt aveva bisogno di me.
MI avvicinai al suo
letto e lui parlò, la sua voce esprimeva tutta la sua sofferenza:
-Perché ho tanto male? Tanto rumore… odore… tutto…-
-Capisco..- risposi, poi esitai un istante, prima di proseguire –Forse
questa è una cosa buona... potrà servirti…-
-Servirmi…?-
Pensaci… è una benedizione, Matt… è tuo… è tuo… Sarà il nostro segreto.
Non dirlo a nessuno… promettimelo…-
-Chi sei tu?-
Non gli risposi ed
invece mi chinai a baciarlo sulla fronte, le sue dita sfiorarono la croce d’oro
al mio collo ed io ripetei…
-Promettimelo…-
Poi uscii, prima che
lui potesse notare le lacrime nei mie occhi. Non tornai più e non l’ho più
rivisto per molti anni.
Matt era figlio di un pugile, uno in gamba, di una stoffa che si vede di rado, forse per questo, ad un certo punto imboccò il viale del tramonto. Poco dopo la nascita di Matt, la madre se ne era… andata e Battlin’ Jack Murdock si ritrovò a dover crescere suo figlio da solo e fece del suo meglio per lui, in un quartiere difficile. Fin da bambino Matt respirò gli odori della palestra in cui suo padre si allenava, il magico mondo della boxe lo attirava, ma suo padre aveva altri piani per lui. Voleva che suo figlio avesse una vita migliore della sua, che fosse un uomo di successo: un medico o, magari, un avvocato. Per ottenere questo risultato fu fedele al suo soprannome: combattente. Non si perse d’animo. Il suo motto era: “Mai arrendersi” e lui non si arrese, venne a patti con la propria dignità e la propria coscienza, ma riuscì nel suo intento. Suo figlio crebbe senza che il marcio che aveva intorno lo corrompesse, dotato di una profonda integrità. Fu, forse, la più grande vittoria di Jack, ma forse lui non la riconobbe come tale, allora.
E Matt? Direte voi: Matt cosa
pensava? Il ragazzo non voleva deludere suo padre: di giorno studiava e
sopportava le prese in giro di compagni meno dotati e più crudeli di lui. Suo
padre non voleva che lui usasse i pugni per farsi largo nella vita e lui lo
rispettava troppo, non voleva deluderlo… ma la notte….la notte era diverso. Era
facile uscire senza farsene accorgere da un padre troppo stanco, raggiungere la
vecchia Palestra Fogwell, la sua seconda casa, praticamente, e lì sfogarsi
tirando pugni furiosi al punching ball. Allenamenti segreti che forgiavano il
suo fisico mentre la scuola forgiava la sua mente.
Alla fine Matt divenne un avvocato.
Quando conobbi Matt Murdock mi sentivo un uomo finito. Ero un poliziotto, uno bravo. Troppo per certa gente che, per sbarazzarsi in modo pulito di me, m’incastrò con una falsa accusa di corruzione. Deluso, mi arruolai nell’Esercito e fini oltremare, coinvolto in una guerra di quelle che alla fine ti chiedi: “Cosa ci siamo venuti a fare qui?”. Volevo salvare i miei commilitoni e m beccai una granata in faccia. Addio occhi. Il vecchio Willie Lincoln era cieco adesso e non era altro che un relitto. Chissà perché, non volevo arrendermi. Una ragazza dell’Assistenza sociale m’indirizzò da un avvocato, Matt Murdock e lui si batté come un leone e riuscì a scagionarmi in Tribunale, riabilitando il mio nome. Certo non mi serviva a niente, ormai, ero cieco. La situazione non sembrava affatto migliorata quando Murdock venne a trovarmi la sera della mia assoluzione.
_Non potrò mai ripagarvi per quello che avete fatto per me, Mister Murdock!- gli dissi.
-Ormai ci conosciamo da un pò di tempo, Willie, direi che possiamo darci del tu!- rispose Matt –Comunque, adesso che sei stato scagionato, potrai rimetterti al lavoro!-
-Ma senza la vista… dove posso andare? Che posso fare?- ribattei.
-È dura Willie, ma potrai farcela!- rispose lui –Devi imparare il Braille in modo da poter studiare! Un cieco può fare un sacco di cose.-
La mia voce suonava amara, quando risposi:
Senti Matt, non vorrei sembrarti ingrato… ma è troppo facile per te dire questo!
-Beh c’è qualcosa che finora non ti ho detto.- ribatté -…anch’io sono cieco!-
Non l’avevo mai nemmeno sospettato. Ma se era così ed era potuto diventare uno dei massimi avvocati del paese, allora…anch’io avrei potuto combinare qualcosa.
Più tardi, quella stessa sera, fummo aggrediti dagli scagnozzi di un gangster e Devil, dopo aver fatto scappare Murdock, li affrontò nel buio del mio appartamento, convincendoli che ero stato io a tenerli a bada sino al suo arrivo. Convinti che sapevo difendermi da solo, ci avrebbero pensato due volte prima di ritornare all’attacco.
Prima che se ne andasse, mi rivolsi a Devil, parlandogli di Matt Murdock:
-È un tipo a posto quell’uomo.-
Devil rispose:
-Strano… ha detto la stessa cosa di te! Ha detto che intendeva parlare di te al Commissario! Ci sono un sacco di lavori per un buon poliziotto… e tu eri uno dei migliori!-
Rimasi solo a riflettere, seduto su un divano con davanti il mio cane.
-Sai piccolo…- dissi –Solo poco tempo fa ero convinto di avere raggiunto il fondo! Ma poi ho trovato un amico… che mi ha scagionato! Adesso… anche se sono cieco, posso guardare al futuro … per la prima volta! Sento di fare di nuovo parte della razza umana! Murdock non ne ha parlato molto… ma a, a pensarci bene… forse è proprio questa la cosiddetta fraternità.-
3.
Avvocato e supereroe, ecco le due
facce di Matt Murdock. Da una parte l’uomo che combatte per affermare il
trionfo della giustizia nella sua sede naturale, i tribunali; dall’altra Devil,
il supereroe che combatte il crimine in modi meno ortodossi.
La prima volta che incontrai
Matt Murdock, ero stato appena arrestato per evasione fiscale ed altri reati.
Mi suggerirono di trovarmi un avvocato. Io li guardai sprezzante
-E va bene, lo farò!- risposi –Ma solo per
dimostrare quant’è inconsistente il vostro caso! Non userò neppure un avvocato
costoso e di nome! Sceglierò un nome a caso… e, tuttavia, tra un’ora sarò fuori
di qui! Datemi una guida del telefono!-
Aprii
la guida alla pagina degli avvocati e scelsi il primo nome che mi saltò
all’occhio:
-Ecco… assumerò questo studio… Nelson &
Murdock!_
Come
avevo predetto, nel giro di un’ora un giudice aveva disposto la mia
scarcerazione, fu allora che io e Murdock ci trovammo faccia a faccia per la
prima volta ed io mi presentai col nome che tutti mi avevano dato:
-Io sono il Gufo!-
Lui
non mi rispose subito. Era cieco, ma per un attimo mi sentii come se potesse
vedere dentro di me, avere di me un’immagine che la vista non avrebbe potuto
dargli. Poi quella sensazione passò ed io lo salutai per andarmene nella notte.
Mi
piace pensare di essere stato io a dare la spinta che fece di lui uno dei più
conosciuti della nazione, sempre alle prese con i casi più insoliti
Poco
tempo dopo, conobbi la mai nemesi di sempre: Devil. Per molti anni ci siamo
scontrati senza un esito decisivo, ma prima o poi le cose cambieranno.
Un tempo si diceva che il valore di un uomo si misura dal valore dei suoi nemici e dalla lealtà dei suoi amici. Se questo è vero, nessuno può dubitare che l’uomo di nome Matt Murdock, di nome Devil sia all’altezza del soprannome affibbiatogli: l’Uomo senza Paura.
4.
Matt è sempre stato un uomo
eccezionale. Quando ci conoscemmo al college, io ero più imbranato che mai. Il
mio autista di famiglia (Eh già, la mia è una famiglia ricca) mi stava aiutando
a mettere a posto il mio nuovo “giocattolo” nella mai camera all’Università, quando
lui entrò, accompagnato dal padre. Mi voltai e gli tesi la mano:
Benvenuto nella tua
nuova casa!- gli dissi –Che ne pensi dell’impianto? Fantastico, eh?-
-Che cos’è? chiese
lui.
-Un televisore a
grande schermo! Con tutte le funzioni! Cosa sei, cie…- Mi bloccai di colpo e mi
sentii mancare il respiro per l’imbarazzo -… Oddio è… oddio, dov’è lo spray?-
Fu lui a salvarmi dall’imbarazzo e,
probabilmente, dalla collera di suo padre
-È il modo migliore
per affrontare un argomento imbarazzante.- disse con un gran sorriso stampato
in faccia, poi proseguì -Franklin, vero?
Sono Matt Murdock!-
-Foggy…- balbettai
-… chiamami Foggy…-
-Perché?- mi chiese
-Perché a volte un
po’ vago… “nebbioso”… appunto… - guardai verso il padre di Matt, che stava
emettendo un sordo “Grrr” –La prego… non mi uccida, signore.-
-È fantastico,
Foggy. Anche a me sfuggono certi dettagli visivi, a volte. Se può esserti
d’aiuto, la mia mano è ancora tesa, a circa mezzo metro da te, col palmo ancora
aperto… e aspetta di essere stretta dal mio compagno di stanza.-
Feci un sorriso idiota e gliela
strinsi più vigorosamente che potevo… ossia poco.
-Okay… il respiro mi
sta tornando normale… bene… felice di conoscerti, Matt.-
-Anch’io. Questo è
mio padre, Jack Murdock.-
-Salve signore.- lo
salutai –Nessuno mi aveva detto… di lei, intendo. Posso offrirvi qualcosa?- e
rivolto a Matt –Hai esigenze particolari?-
-Russi?- mi chiese
lui
-No. Dormo come un
sasso.- risposi.
-Credo sia l’inizio
di una bella amicizia, allora.- concluse Matt.
E lo fu, una delle migliori della
mia vita e delle più salde, sopravvissuta ad avversità che avrebbero potuto
spezzarla e ne, alla fine, uscita rafforzata.
Oggi, come quando ci trovammo
insieme dopo l’Università, in un piccolo ufficio pagato coi soldi di mio padre,
siamo sempre Nelson & Murdock
La vita non è fatta
solo di trionfi, ma anche di tragedie e Matt ne ha avute tante, a cominciare
dall’omicidio del padre. Troppe volte ha visto morire persone a cui teneva, una
in particolare.
Mi fermo dinanzi alle due lapidi gemelle. Da un lato mio padre e
dall’altro, tu, Karen. Ho avuto tante donne nella mia vita: Elektra, Natasha,
Heather, Glorianna… ma tu… sei sempre stata l’unica con cui avrei davvero
diviso la mai vita per sempre. L’ho saputo sin dalla prima volta in cui ti ho
conosciuto, in cui ho sentito il tuo profumo e la tua voce melodiosa. Ricordi
quei giorni? Eravamo giovani e stupidi, non ci dicemmo subito la verità sui
nostri sentimenti, commettemmo errori su errori ed alla fine sembrò che le
nostre vite dovessero prendere strade opposte.. e così fu, almeno sino a quella
notte sulla neve, di fronte all’appartamento di Foggy. Ti rimasi accanto mentre
tu superavi una crisi dietro l’altra di astinenza da eroina. Tu pensavi che io
ti avessi salvato, ma, in realtà sei stata tu a salvare me. Ci sei sempre stata
quando avevo bisogno di un faro che illuminasse il mio cammino… sei sempre
stata al mio fianco, il mio sostegno, la mia luce… fino a quel maledetto
giorno. Non c’era bisogno che ti sacrificassi, sai? Bullseye mi aveva lanciato
contro il mio stesso bastone. Ero stanco, ma potevo evitarlo, ero sempre
sopravvissuto alle trappole dei miei nemici, alla mira di Bullseye, ce l’avrei
fatta anche questa volta. Ma tu saltasti e ti frapponesti nel mezzo, prendendo
in pieno il colpo destinato a me. Sentii il tuo respiro mozzarsi, il tuo
battito rallentare e la tua voce dire:
-Matt… amore… mi mancherai….-
Poi più nulla. Ti
sentii morire tra le mie braccia ed in quel momento, desiderai di esser morto
al tuo posto.
Sono andato avanti. È
quello che tu avresti voluto, non è vero? Una parte di me, però rimarrà sempre
con te e tu… tu sarai sempre con me, là dove conta: nei miei ricordi, nel mio
cuore.
Matt Murdock, Devil: due facce dello stesso uomo. Questa potrebbe essere la sua storia ed io potrei narrarvela. È quello che so fare meglio, in fondo.
La Vedova Nera
LA SPIA PERFETTA
Di Carlo Monni
1.
Il suo nome è Ivan Ivanovitch Petrovitch.
Ha visto molte cose in vita sua nella sua natia Russia e nella sua nuova
patria, gli Stati Uniti d’America, ma crede che poche cose lo abbiano messo più
a disagio di quella semplice domanda:
-Parlami
di Natasha.-
A fargliela è stato un uomo che si
fa chiamare abitualmente Paladin e talvolta risponde al nome di Paul Denning.
Ivan non può dire di trovarlo simpatico, a volte ha l’impressione di pensarla
così di tutti gli uomini che ‘Tasha ha frequentato dopo Alexi, ma crede di
poter dire che è un tipo a posto.
-Che
vorresti sapere?- gli replica, brusco.
-Mah
non saprei, diciamo: un po’ di tutto. Per esempio è vero quel che si dice? Che
è una discendente degli Zar e che tu l’hai salvata da bambina da un palazzo in
fiamme a Stalingrado?-
Ivan fa un brontolio, che dovrebbe
assomigliare ad una risata.
-Volgograd.-
dice.
-Cosa?-
-Si
chiama Volgograd, adesso. Da quando Stalin da “Piccolo Padre” divenne un
criminale maniaco, per essere esatti. E si, c’era un palazzo incendiato, il
motivo per cui lo era non ha più molta importanza oggi, e su un balcone del
secondo piano apparve una donna. Sapeva che non c’era speranza, le fiamme erano
troppo vicine e, naturalmente, non c’erano pompieri in vista. Mi vide e prese
una decisione. Aveva la bambina in braccio, era molto piccola, nemmeno due
anni, e la gettò verso di me. La presi al volo. Abilità? Fortuna? Non lo so, ma
avvenne e pochi istanti dopo il palazzo esplose, portandosi via la donna per
sempre. Io presi la bambina con me e le feci da padre. Ti basta come risposta?-
-Non
del tutto, ma grazie lo stesso. Poi cosa accadde?-
Ivan gli volta le spalle e fissa
l’orizzonte fuori dalla finestra, quel panorama così diverso dalla città dove è
nato. Quando parla è come se non rispondesse a Paladin, quanto, piuttosto, a se
stesso,
-Era
una bella ragazza, intelligente. Avrei dovuto capire subito che lo Stato aveva
delle mire su di lei. Le diedero la migliore educazione che si potesse avere.
Eccelleva soprattutto nelle discipline atletiche ed amava la danza. Per un po’
pensai che sarebbe diventata la Prima Ballerina del Bolshoi, ma il destino
aveva piani differenti per lei…-
Il suo nome esatto è Natalia
Alianovna Romanova, ma negli Stati Uniti la conoscono meglio come Natasha
Romanov, oppure, meglio ancora come la Vedova Nera. Stasera, però non indossa
il suo attillatissimo costume, ma un abito lungo, nero con le spalle scoperte e
la schiena nuda e con spacchi laterali alla gonna, disegnato da lei
stessa. I capelli rossi le ricadono
sciolti e morbidi sulle spalle, gli orecchini di smeraldo che le pendono dai
lobi delle orecchie sono intonati ai suoi occhi verdi. Gli sguardi ammirati
degli uomini e quelli non privi d’invidia delle donne la seguono, mentre
attraversa il salone di uno dei migliori ristoranti di Manhattan, sino a che si
ferma dinanzi ad un tavolo e l’uomo di fronte a lei si alza galantemente per
accoglierla.
-Sei
splendida come sempre Natasha.- le dice.
Lei fa un sorrisetto e risponde:
-Grazie
Tony, sei galante come sempre. Tu come stai? Ti sei ripreso bene dalle
conseguenze della nostra ultima avventura insieme, vedo.-[1]
Tony Stark risponde al sorriso e rivolge
uno sguardo ammirato alla donna, mentre gli occhi di lei lo scrutano
indagatori. Tony ricorda la prima volta che li vide. Dio, è davvero passato
così tanto tempo?
-Sono
uno che si riprende in fretta, lo sai.- replica, infine –Sono lieto che tu abbia
accettato il mio invito a cena.-
-Diciamo
che ero curiosa di sapere cosa volessi da me.-
-Ne
parleremo al momento giusto. Per ora godiamoci la serata. A proposito, ricordi
che giorno è oggi?-
-Dovrei?-
-Speravo
di si. È l’anniversario del nostro primo incontro, Ricordi?-
-Oh,
cielo! Si.- esclama Natasha.
Ivan continua il suo racconto per un
attento Paladin:
-Natasha
era pronta per il suo debutto nel balletto, quando conobbe un giovane ufficiale
d’Aviazione di nome Alexi Shostakov. S’innamorarono e si sposarono dopo pochi
mesi. Ripensandoci, fu di certo il periodo più felice della vita di Natasha, ma
non era destinato a durare. I Servizi segreti avevano i loro piani per entrambi
e questi piani non prevedevano che rimanessero una coppia. Selezionarono Alexi
per un progetto destinato a farne la controparte sovietica di Capitan America,
il Guardiano Rosso. Gli uomini del G.R.U.[2]
organizzarono la sua finta morte in un incidente di volo ed Alexi divenne un
loro burattino. Natasha ricevette una visita: un militare ed un civile, che le
dissero che Alexi era morto nell’adempimento del dovere e le offrirono un modo
per onorarne la memoria. Il civile, un agente del K.G.B.,[3] le
offrì di diventare un loro agente e lei accettò. Passarono anni, prima che
capisse che lei e suo marito erano stati burattini di un gioco più grande di
loro.-
Ivan tace e Paladin scuote la testa.
-Che
bastardi.- commenta.
-Esattamente
il mio pensiero.- replica Ivan –Naturalmente, quello fu solo l’inizio…-
2.
Natasha lascia che i suoi ricordi
tornino a molti, forse troppi, anni prima. A quell’epoca non c’erano costumi o
gadgets, ma solo una bella donna, una spia senza pari, astuta, sexy e letale,
degna del nome che le avevano affibbiato: Vedova Nera. Le affidarono un compito
importante: rubare i segreti del geniale inventore e multimilionario americano
Anthony Stark e recuperare contemporaneamente l’armatura della Dinamo Cremisi
ed il suo inventore, il professor Anton Vanko, fuggito in Occidente e che stava
sviluppando per gli americani un laser di nuova concezione di cui bisognava a
tutti i costi recuperare i piani. Non sembrava un compito complicato. Era
abituata a sedurre gli uomini per raggiungere gli scopi assegnati e Tony Stark
non sembrava una preda difficile e si dimostrò fin troppo sensibile al suo
fascino. La missione era sul punto di riuscire, ma fu rovinata dall’intervento
di Iron Man ed il risultato fu che il Professor Vanko sacrificò la propria vita
per salvare quella del Vendicatore Dorato.[4]
Naturalmente, all’epoca lei ignorava che sotto l’armatura ci fosse lo stesso
Tony Stark e non un’anonima guardia del corpo.
Non sono ricordi piacevoli per
Natasha, la riportano ad un tempo in cui era una donna molto diversa, più
spietata e priva di scrupoli. O forse è quello che le piacerebbe credere. Forse
non è cambiata affatto da allora, forse si è solo data una vernice di migliore
rispettabilità, una falsa certezza di lavorare per la parte giusta adesso, ma
non è solo un’illusione?
-Mi
stavi ascoltando Natasha?- la voce di Tony Stark la riporta al presente.
-Scusa,
Tony…- risponde -… stavo ripensando ai giorni del nostro primo incontro. Erano,
com’è che si dice?… Tempi interessanti.-
Un sogghigno è la risposta di Tony.
-Vero.-
dice l’industriale –Sono successe tante cose da allora, che sembrano passati 40
anni, eppure , a volte, sembra quasi ieri.-
Vero..
Tony, non ti capita mai di rimpiangerli?-
-Spesso.
Per questo credo di averti invitato, per replicare la nostra prima sera
insieme. Che ne dici? Un bel giro dei locali notturni e l’alba sulla spiaggia
di Long Island…-
-Perché
no Mr. Stark?- risponde lei ridendo.
Paladin finisce la seconda tazza di
caffè e parla:
-Continua
Ivan.-
Il russo si appoggia ad uno dei
mobili, incrocia le braccia e continua il suo racconto.
-Natasha
fu affidata ad uno dei migliori istruttori del K.G.B., Alexei Bruskin, divenne
in breve la migliore delle sue allieve. Al termine dell’addestramento le
assegnarono la sua prima missione sul campo: la spedirono qui negli Stati
Uniti, in California, dove, assieme ad un tizio di nome Danny French, doveva
sottrarre una cosa chiamata Progetto Quattro. Fu la prima volta che uccise
qualcuno nel corso di una missione.-
-Ho
sentito nominare il Progetto Quattro.- lo interrompe Paladin –Aveva a che fare
con un tizio di nome Damon Dran. Che ne è stato?-
-Questa
è una storia che non ci interessa adesso.[5] La
Natasha che tornò da quella missione il suo battesimo del fuoco, era più dura
ed aveva appena cominciato ad essere all’altezza del suo nome di battaglia.
Quella fu solo la prima di molte altre missioni in suolo americano ed intanto
il suo carattere si induriva sempre di più.-
-Fu
in quel periodo che conobbe quel tipo, Harold Howard, vero?- chiede Paladin.
Ivan si incupisce improvvisamente
-Quello
che è accaduto tra Natasha e Harold Howard non è una cosa che è il caso di
discutere.- risponde brusco.
-Ok,
come preferisci, conosco il valore della privacy.- il che, pensa Paladin, non
m’impedisce di avere dei sospetti, specie riguardo all’interesse mostrato da
Natasha per il figlio di Howard all’epoca del suo rapimento.[6] -Che
altro puoi dirmi?- chiede.
-Poco
che tu già non sappia. Una decina d’anni fa le affidarono l’incarico di spiare
quelle che allora si chiamavano Industrie Stark e questo credo fu l’evento che
cambiò tutto quanto. A quell’epoca le avevano messo al fianco un altro agente,
forte come un toro ed altrettanto pericoloso, si chiamava Boris Turgenev.-
Paladin fa una smorfia:
-Boris
& Natasha… mi stai prendendo in giro?-
Ivan sogghigna
-No,
è proprio così, per quanto buffo tu lo possa trovare. Boris morì in quella
missione. Si era impadronito dell’armatura della Dinamo Cremisi ed il suo
creatore, il professor Anton Vanko, usò contro di lui un instabile raggio
laser, che uccise entrambi. Molto triste. Il resto credo che tu lo sappia. In
seguito, Natasha incontrò Occhio di Falco e, nonostante lo avesse convinto a
lavorare con lei, pian piano, cominciò a mettere in questione la sua lealtà
alla causa che serviva. Alla fine decise di passare dall’altra parte.-
-Lei
ed Occhio di Falco erano, come dire… amanti?.-
-Erano
una coppia. Lui voleva sposarla, ma lei esitava ed alla fine decise di
lasciarlo.-
-Perché,
se lo amava?-
-Era
convinta di non essere la donna adatta lui, che, alla fine l’avrebbe fatto
soffrire. Mi piaceva quel ragazzo, l’ho conosciuto poco, la loro storia era
quasi alla fine quando raggiunsi gli Stati Uniti, ma mi piaceva. Natasha non ha
mai avuto molta fortuna con le relazioni, purtroppo.-
Paladin vorrebbe dire qualcosa,
quando sente il rumore delle porte dell’ascensore che si aprono e poco dopo,
ecco arrivare Natasha.
-Toh!-
esclama –Non ditemi che aspettavate me. Che stavate combinando voi due?-
-Chiacchiere
da uomini, mia piccola zarina.- risponde Ivan –Dove sei stata?-
Natasha sorride e gli accarezza la
guancia:
-Mio
caro Ivan, sono una donna adulta, ormai … diciamo che ho fatto una visita al
passato, se così si può dire.- si volge verso Paladin –Sono felice di vederti
Paul, davvero.-
E l’uomo chiamato Paul Denning o
Paladin vuol credere che sia vero.
Natasha si alza nel cuore della
notte. Non riesce a dormire. I suoi pensieri corrono ancora al suo primo
incontro con Tony Stark. Non lo avrebbe certo detto allora, ma quello è stato
un punto di svolta della sua vita. Quante cose sono cambiate da quel giorno di
tanti anni prima! Spesso in meglio, eppure.. riuscirà mai a sentirsi davvero
bene? Potrà essere davvero soddisfatta di se? Dalla morte di Alexi non è mai
stata davvero capace di impegnarsi seriamente con un uomo. Quanti ne ha avuti?
Danny French, un breve incontro finito male per lui, o forse sarebbe morto lo
stesso, anche senza averla mai conosciuta; Harold Howard, con lui ha perso
anche l’ultimo residuo di innocenza; Occhio di Falco l’amava senza riserve, ma
lei non poteva essere quella che lui avrebbe voluto; Matt Murdock, Devil, le
loro filosofie di vita erano troppo diverse; Ercole, Simon Stroud, Clive
Reston, quel Maggiore russo, Andrei Rostov, e tante, forse troppe storie di una
notte. Ed ora Paladin. Un’altra relazione senza futuro, forse?
Improvvisamente, sente le braccia di
lui stringerla da dietro
-Cosa
ti turba, tesoro?- le chiede
-Pensavo
al passato… e al futuro.- risponde Natasha –Mi chiedo cosa ha in serbo per
noi.-
-Chissà?-replica
Paladin –Credo che saperlo ora ci toglierebbe tutto il divertimento. Non è
meglio scoprirlo giorno per giorno?-
-Si,
penso di si, come direbbe Ivan, citando uno dei suoi vecchi film che tanto ama:
“Domani è un altro giorno”.-
Paladin Non parla e la stringe di
più a se. Natasha si lascia andare ed appoggia la testa sulla sua spalla.
Ci sarà sempre un domani per la
Vedova Nera.
Jack Murdock
BAGNO DI LUCE
Di Xel aka Joji
Prende fiato.
Nel naso brucia l'odore misto di sudore e detersivo degli spogliatoi.
Solleva i guantoni all'altezza del volto e con i denti afferra i lacci per
stringerli.
Sente il cuore che batte a mille.
Porta le mani in avanti, spingendo con i dorsi dei guantoni le porte degli
spogliatoi.
Le luci del Madison Square Garden per un attimo lo accecano.
Davanti a se vede solo il bianco intenso dei faretti.
Fa un altro passo in avanti verso quelle luci.
Un passo verso la luce.
Come la nascita.
Dal buio dell'utero, alla luce della sala dell'ospedale, un infante imbrattato
di sangue e liquido amniotico lancia il suo primo pianto, un grido a pugni
stretti, con gli occhi chiusi davanti all'intensità delle luci della sale
d'ospedale.
E di fronti a quel fagottino scalciante, subito stretto dalle infermiere dentro
un caldo panno bianco, il cuore di Jack ha un cedimento.
E' incredulo quando afferra quello scricciolo tra le braccia.
Esita, perché è talmente minuto, da sembrargli così fragile che solo a toccarlo
si potrebbe spezzare.
Le dita del bambino ghermiscono l'aria, e con una mano afferra uno dei suoi
grossi pollici.
Ha un fremito nel vedere quelle ditine bianche avvolgere la sua pelle.
Un omone pieno di muscoli, con la mascella squadrata, il naso segnato dai tanti
incontri, lo sguardo truce, inizia a piangere, rendendosi conti che tra le
braccia ha suo figlio.
Grace, sua moglie, non c'è più.
Matt, suo figlio, ha bisogno di tante cose, di tutte quelle cose di cui ha
bisogno un bambino per crescere bene.
Nella palestra, illuminata dalla fioca luce di una lampadina prossima al
fulminarsi, Jack colpisce il sacco di sabbia con furia.
Ad ogni colpo il sacco ondeggia e sulle pareti crea giochi d'ombra sempre
diversi.
Picchia il sacco Jack, pensando al giorno prima, al parco con Matt, davanti ad
un laghetto, suo figlio che guarda un bambino che azzanna famelico un invitante
Hot Dog, con negli occhi la brama di assaggiarlo.
E Jack che gli chiede se ne vuole uno, prendendo il portafoglio dalla tasca e
tirandone fuori l'unica banconota che contiene.
Ma Matt scuote la testa, dici di no, come se capisse che nella loro situazione
ogni dollaro risparmiato è un dollaro guadagnato.
Un altro colpo al sacco e la lampadina si fulmina del tutto e la palestra
piomba nel buio.
Un colpo alla fronte.
Sente l'occhio pulsare, mentre il sangue si raggruma sul labbro.
"Fatti furbo Murdock, Slade non si stanca facilmente... e temo che stia
cominciando a divertirsi."
"Il Sistematore cerca di farti un favore fesso. Un lavoro fisso non è
facile da trovare in 'sti tempi."
Il Sistematore e Slade, nei loro completi neri sembrano quasi mimetizzarsi
nella penombra, solo i loro volti e le loro mani risaltano nel buio.
"Non lo farò." Non vuole sprofondare anche lui in quell'oscurità
"Lo farai. Ti lavorerai il quartiere per me. Incasserai i debiti o
creperai."
"Uccidimi allora. Non lavorerò per la mala."
"Non ho finito Murdock. Incasserai i soldi delle protezioni o morirai
tu... e quel tuo ragazzino dagli occhi blu..."
Su e giù dal ring.
Dalle luci dell'arena, alle tenebre dei vicoli.
Dai colpi agli avversari, ai pugni ai negozianti.
Jack è disposto a vendere la sua anima, quando con il ricavato può offrire a
Matt la vita che merita, può dare a sua figlio una vita diversa da quella del
padre, una vita migliore.
C'è la concreta speranza in Jack, che Matt possa vivere felice.
La speranza si infrange il giorno dell'incidente.
Tormenta la giacca di pelle e picchietta il pavimento con le punte dei piedi,
seduto nel corridoio di un ospedale illuminato da Neon che andrebbero cambiati
al più presto, le cui pareti azzurre sono impregnate dell'odore di
disinfettante.
L'ansia lo divora, nella sua mente non c'è nulla, se non Matt, se lo
perdesse... perderebbe ogni cosa...
E' più calmo quando l'operazione finisce, quando sa che è fuori pericolo, ma
nel momento in cui entra nella stanza, il cuore gli si spezza.
Il figlio, nel grosso letto, con le bende bianche avvolte attorno agli occhi,
gli sembra così piccolo, come quando era appena nato.
Qualche raggio di sole entra dalle serrande semi chiuse, allungando sul
lenzuolo l'ombra del vaso pieno di fiori poggiato sul comodino.
Jack si siede accanto al figlio ed inizia a carezzargli la mano "Andrà
tutto bene, Matt.. vedrai... andrà tutto bene..."
L'unica risposta è un sibilo sommesso che fuoriesce dalle narici del ragazzo.
E lo sguardo di Jack si sofferma sulle bende che cingono il volto di Matt:
pensa a gli occhi sotto quelle garza, occhi chiusi che non si apriranno più,
che non vedranno più la luce.
La mano di Jack si stringe su quella di Matt.
Si concedono una passeggiata al Central Park, durante una nuvolosa giornata
di fine inverno.
Matt ha iniziato l'università da qualche mese e Jack è pieno d'orgoglio per i
successi del figlio, ma non riesce ad ignorare gli sguardi della gente, pieni
di misericordia, che puntano gli occhiali e il bastone di Matt.
Avrebbe voluto regalare a Matt una vita perfetta, ma in quei momenti ha la
sensazione di aver fallito.
Quando però Matt comincia a raccontargli, con tono entusiasta, della vita
universitaria, con la voce eccitata e un largo sorriso sul volto, Jack sente il
cuore più leggero.
"Quando sarà il prossimo incontro, papà?" gli chiede d'un tratto il
figlio.
"Tra una settimana."
"Stai andando alla grande papà, sono così orgoglioso di te!"
Il sole fa capolino oltre le nuvole, illuminando coi suoi raggi il sorriso
commosso che si allarga sul volto di Jack.
Corre ogni mattina, Jack Murdock.
E anche quella mattina, nonostante abbia nevicato tutta la notte, Jack è per
strada.
Le nuvole cariche di neve tingono di grigio il cielo.
Una grossa auto di lusso lo accosta, con un sibilo cala il finestrino e Matt si
trova davanti al viso del Sistematore."Stai esagerando Murdock, non sei
più un ragazzino."
"Non sto andando male, Sistematore..."
"Oh, andiamo. Sei così stupido da credere di aver vinto tutto da solo?
Perché credi che mi chiamino Sistematore? E' tutto un trucco. E' merito mio se
sei il pugile del mese, mi farai fare un sacco di grana... perdendo l'incontro
di domani..."
Un rumore di vetri che vanno in pezzi: sono le illusioni di Jack che si
frantumano, mentre l'auto sparisce oltre un incrocio.
I piedi continuano a calpestare la neve, mentre la sua mente gli ripete che è
un idiota, che ha creduto di essere un campione, mentre, invece, non è niente,
non è nessuno...
E' seduto nello spogliatoio.
E' pronto alla sconfitta che lo ricaccerà giù nei vicoli dove merita di stare,
lontano dai ring e dalle luci della ribalta.
Sarà doloroso, ma sopporterà...
Poi pensa a Matt, pensa a suo figlio, ripercorre la sua vita fino a quando è
nato il bambino.
Difficoltà, dolore, restrizioni, negazioni...
Una vita difficile che ha cerca di rendere più facile donando a suo figlio
tutto il suo affetto.
Prende fiato.
Nel naso brucia l'odore misto di sudore e detersivo degli spogliatoi.
Solleva i guantoni all'altezza del volto e con i denti afferra i lacci per
stringerli.
Sente il cuore che batte a mille.
Porta le mani in avanti, spingendo con i dorsi dei guantoni le porte degli
spogliatoi.
Le luci del Madison Square Garden per un attimo lo accecano.
Davanti a se vede solo il bianco intenso dei faretti.
Fa un altro passo in avanti verso quelle luci.
Si immerge in quel fiume di luce, che sa donare attimi di inebriante felicità.
Attimi brevi, ma reali.
E in cuore suo sa, che non vuol negare quell'ultimo breve momento di luce a suo
figlio.
Sul ring darà tutto se stesso, per regalare a Matt un sorriso.
Karen
Page
TEMPUS FUGITUM
A questo punto, qualcun altro si
metterebbe ad elencare la propria vita. Inizierebbe a percorrere il viale dei
ricordi, dalla nascita fino ad oggi.
Oh, Matt caro, perché vieni
ancora a trovarmi? Non ho bisogno che tu stia qui, sotto la pioggia, a pensare
a tutte le cose che avrebbero potuto andare diversamente.
Insomma, diciamocela tutta: è
colpa mia. Sono stata io a trascinare entrambi nell’abisso; e la cosa peggiore
è che io ho cominciato per prima. Tu hai fatto l’errore di fidarti di me,
povero Matt! Sempre pronto ad aiutare gli altri, un guerriero col cuore di
agnello.
Voglio stringerti, Matt.
Voglio baciarti, voglio amarti come ci amavamo una volta, quando ancora avevo
una vita davanti a me.
*sigh!* ecco che ci ricasco.
Come posso dimenticare la prima volta che ti vidi? Certo, allora ero solo la
segretaria di un neonato studio legale, il vostro studio, tuo e di Foggy.
Povero Foggy! Credo proprio
che avrebbe dato l’anima per essere al tuo posto… Piantala di piangere, Matt, è
andata come è andata. Insomma, io ho saputo farmene una ragione.
Sì, e avevo saputo farmene una
quando mi gettai nel tunnel della droga. Ero nel tunnel, e la mia luce era
nera; mi aggrappavo a te per farti del male, Matt. Succede, con i tossici:
vogliamo così bene ai nostri amici da volere condividere ogni male con loro,
non importa quanto male faccia a tutti.
Mi manchi, Matt. E so che io
manco a te. E ora siamo qui, così vicini da poterci sfiorare eppure così
lontani che non voglio neppure pensare a cosa servirebbe per riunirci.
Posso solo aspettare. Sperare?
No, non sono più così carogna, Matt.
Perché questa è la sola parola
che posso usare, per me: carogna.
Tu mi hai salvato la vita più
volte di quante possa contarne. Non mi hai mai chiesto niente, in cambio. Ne’
come eroe, ne’ come uomo.
Vesti come un diavolo, Matt,
indossi il colore del sangue, ma sei sempre stato il mio principe azzurro.
Quel primo giorno ti vidi e
dentro di me seppi di essere innamorata. Certe volte ti fingevi impacciato, ma
eri sempre stato così sicuro di te.
A differenza di me, l’eterna
principessa in pericolo. Incapace di prendere una decisione sensata, schiava
della mia insicurezza.
Ti fanno soffrire queste
parole, Matt? No, no, no! E poi guardami! Insomma, non è stata colpa tua, alla
fine. Devo ripetertelo all’infinito? E quando ti senti così disperato da
volerla fare finita, ricorda che se tu fossi stato al mio posto per davvero…
Ho voglia di una sigaretta,
dannazione! Di tutti i vizi che dovevo tenermi, questo è il peggiore. Sì, il
fumo deve essere l’inferno.
Matt, non puoi restare qui. Non
puoi essere al mio posto. Troppe persone ne avrebbero sofferto. Lo sai.
Matt, Matt, quando ti
incontrai non sapevo dove saremmo andati a finire. Ero frivola come la metà
delle donne dei miei tempi. Pensavo a noi due come ad un obiettivo
inarrivabile, e tutte le volte che arrivava il momento di farsi avanti,
succedeva qualcosa che ci teneva lontani.
Vorrei ricordare qualcosa di
speciale, il giorno del nostro primo incontro, Matt: frasi ad effetto, battute
salaci, profondi argomenti di discussione.
Invece, tu e Foggy andaste a
pranzo insieme. Io consumai il mio, e aspettai che venisse la fine della
giornata. Tutto qui. Non ti strinsi neppure la mano, quando me ne andai a casa.
Il resto sarebbe venuto dopo,
un poco alla volta, mai abbastanza e troppo tardi.
E ora siamo qui, separati per
chissà quanto ancora.
Sono felice che tu venga a
trovarmi, ma non ha senso se finisce sempre con le tue lacrime ed il mio
dolore.
Io sono legata a questo mondo,
a questo cimitero. Non posso neppure venire a trovarti a casa, se non nei
sogni…e non ho voglia di farti soffrire ancora, Matt.
Ho perso tempo, il tempo è
fuggito. Lasciami qui, amore mio: non riaprire la ferita. Chiudila e saremo
entrambi più felici.
Sono stata una stupida.
Ti amerò sempre.
Di Fabio Volino
Il suo nome è Wilson Fisk. Per gran parte dell’opinione pubblica è solo un umile commerciante di spezie (beh, umile mica tanto visto che è finito in prigione per evasione fiscale). Ma per pochi, pochissimi eletti è Kingpin. Quando si sente questo nome la prima volta, una risata parte quasi spontanea: un solo uomo che guida l’intera criminalità organizzata di New York? Una leggenda. Ebbene no, questa leggenda ha più che un fondo di verità, ha un nome ed un cognome.
Ma la strada che Wilson Fisk ha dovuto compiere per assicurarsi questo titolo è stata impervia, piena di difficoltà e gravida di perdite. In un suo rifugio, l’unico che l’FBI non è riuscito a scovare, vi sono dei ricordi di questa ascesa: e tra questi ricordi ci si potrebbe stupire di trovare la foto di una donna. Il suo nome era Helen Mirren.
Una donna il cui nome si perde nei meandri del tempo e della memoria: erano passati alcuni anni da quando Fisk aveva dato fuoco ad una fabbrica uccidendo numerosi uomini stipati al suo interno. I primi morti sulla sua coscienza, i primi di tanti, morti che lui non rimpiange. Wilson cominciava a farsi un nome all’interno della criminalità organizzata e già ambiva a scalare rapidamente i gradini che lo avrebbero portato al successo, al potere assoluto. Pensava solo a quello, a come eliminare i suoi avversari più pericolosi come Don Fortunato, a come raccogliere attorno a sé un numero sempre più crescente di fedeli lacchè. Poi nella sua vita comparve Helen Mirren e Wilson non pensò più così insistentemente a quegli obiettivi.
Si era appena concluso un raid contro la famiglia Gambini: tutti i maschi della famiglia morti, nessun discendente rimasto in vita. Famiglia annientata. E tra le donne urlanti, che con pietà vennero lasciate andare, una colpì il giovane gangster. Perché non urlava, non piangeva, non aveva un volto triste, torvo, irato: era all’apparenza priva di emozioni, come Wilson. Lui le si avvicinò, scoprendo con sua insolita sorpresa che molti aspetti del suo carattere erano a lui graditi. Ancor più grande fu la sorpresa nei giorni successivi quando comprese che si sentiva bene, straordinariamente bene, ogni volta che le era vicino. Alla fine capì: si era innamorato. Era allora più giovane, più ingenuo, meno spietato di adesso.
Rischiò di pagarla cara: Helen mirava a vendicarsi fin dall’inizio per il fatto che Fisk avesse ammazzato il suo futuro marito ed il suo atteggiamento impassibile era solo una facciata. In realtà dentro di sé bruciava di odio. Tentò di uccidere Wilson, mentre facevano l’amore, con un punteruolo per il ghiaccio. Ma commise un grave errore: credette che un uomo così grasso non potesse essere altrettanto agile. Wilson evitò il suo colpo letale, afferrò il punteruolo e prima di uccidere Helen la guardò intensamente. Uno sguardo in cui si concentrarono rabbia, vendetta… e sì anche delusione. Poi la colpì ventisette volte. Fu una delle poche volte in cui il futuro Kingpin si fece soverchiare dalle sue emozioni. E diversamente da tutte le altre persone da lui uccise, stavolta provò rimpianto, rammarico. Lo provò per molto, molto tempo. Poi divenne Kingpin e tutto venne rapidamente dimenticato, soprattutto quando un’altra donna, Vanessa, una donna molto più fedele e sottomessa, entrò a far parte della sua vita.
Wilson Fisk ha pensato a molte cose da quando è in prigione, ha riconsiderato tutta la sua esistenza. Ed il nome di Helen Mirren gli è tornato alla memoria: l’ ha scacciato via in un attimo, disgustato. Perché oggi non è più il ragazzo ingenuo che era un tempo. E da quella vicenda ha imparato un’ importante lezione: che l’ amore è un impiccio per i suoi affari. Farà sì che ciò non debba più verificarsi. Anche se questo lo renderà un uomo che, per quanto potente, sarà anche molto, molto solo.
Il suo nome è Wilson Fisk. Ma per alcuni è Kingpin, il Re del Crimine di New York. Non una leggenda, non una battuta: ma la realtà. Una realtà che ha sconvolto la vita di molte persone. E che continuerà a farlo in futuro.
IO UCCIDO
Di Marco “Klaproth”
Gotta
La stanza è piccola, molto piccola; non c'è quasi nulla come arredo, il tavolo, la sedia ed il letto sono tre protuberanze della lastra di metallo che avvolge tutto lo spazio della cella che negli ultimi tempi è stata lo spazio privato di Bullseye. Scagliato giù da una palazzina da Devil, era stato catturato dalla polizia, e rinchiuso in questa cella speciale dove non c'è nulla che lui possa utilizzare come arma staccandolo in qualche maniera dal resto. Solitudine, buio, rabbia e voglia di rivincita lo hanno tenuto in piedi per tutto questo tempo. Poi, dopo tre settimane dall'arresto, la sorpresa. Uno strizzacervelli vuole vederlo, uno nuovo. Dicono uno bravo, in grado di guarirlo. Con la sicurezza che nulla potrebbe mai scalfire la sua predisposizione all'odio, ma con la segreta speranza di una riduzione per buona condotta, possibilità che gli è stata peraltro prospettata dal direttore, Bullseye accetta.
La prima visita non è stata male, non fosse stato per la lunghissima preparazione, che partendo da una perquisizione completa, passando per la vestizione con una specie di camicia di forza con fili di adamantio, e concludendo con l'incatenamento ad una piastra di ferro, lo ha portato davanti allo psicanalista, che si è presentato come Joe Keer. Alto, moro, robusto, occhiali da sole spessi; il tipo di persona che passa dallo studio alla palestra al letto coniugale con lo stesso entusiasmo, le stesse soddisfazioni, gli stessi risultati e probabilmente anche lo stesso sorriso assente. I sensi offuscati, Bullseye realizza che l'ultimo pasto doveva essere stato drogato, ma in lui quelle droghe che dovrebbero renderlo più docile servono solo a scatenare ancora di più la sua ira, in una battaglia tanto estrema quanto persa in partenza fra la sua psiche e le sostanze chimiche nel suo sangue.
"Cosa fai per vivere, Bullseye?" - Il tono della voce di Joe era una incomprensibile miscela di professionalità, disgusto e... forse una venatura di rabbia? Impossibile concentrarcisi troppo sopra, la testa pulsa e rimbomba troppo. La prima risposta è quella giusta, è quella che ti permette di andare avanti, è quella che ti fa incominciare voltato nella direzione che prenderà tutto il discorso.
"Io uccido". Biascicato, nemmeno un quinto della paura che intendeva scatenare con la sua risposta. Maledette droghe, la prossima volta proverà a restare digiuno; è un rischio, perché potrebbero essere costretti ad iniettarle, e sarebbero ancora più efficaci. Ma ne vale la pena di correre quel rischio, pensa.
"Capisco". Pausa, prende in mano alcuni fogli. "Lei qui è descritto come un incrocio fra un mercenario ed un serial killer, capace di uccidere qualsiasi persona in qualsiasi modo. Quindi la definizione che lei stesso ha dato, 'Io uccido', è quanto mai appropriata". Mentre parla, cammina intorno alla lastra a cui è stato legato e che ora è in posizione quasi verticale, appoggiata ad un muro. Bullseye ha tentato di slegare una mano o anche un solo dito, ma ha rinunciato quasi subito, preferendo mantenere le forze per un incontro futuro, confidando nel fatto che la routine sicuramente allenterà le procedure di sicurezza.
"Quindi, per lei questa lista di dodici fogli dei nomi e cognomi delle persone che ha ucciso è una specie di curriculum vitae?".
Sorpreso (ed ammettiamolo, anche un poco inorgoglito) dall'improvvisa ovvietà di quella rivelazione, il sicario che è in lui emerge prepotentemente rispondendo con un "Sì, potremmo metterla così. Io li ricordo tutti. Corde, coltelli, pistole, fratture del collo. E anche oggetti vari. Lei non può nemmeno immaginare in quanti modi è possibile portare a termine un lavoro."
"Un lavoro. Interessante come definizione per la vita di una bambina di tre anni che si trovava casualmente nelle vicinanze e alla quale lei ha tranciato la colonna vertebrale con un segnale stradale sradicato poco prima."
"Ehi, calma. Non era nel contratto. Lo so. Ma era una testimone. Non potevo" La testa... non si ricorda la parola... "Non era nel mio piano. Un extra, per continuare con le metafore. Però non ho preteso soldi in più per quello, eh."
"Quindi lei sostiene che nel fatto che lei fa pagare solo gli omicidi che le sono commissionati ci sia qualcosa di 'morale'?".
"Io uccido. E' il mio status nella società, il mio istinto da sempre, l'unica cosa che so fare. Nelle mie mani, potenzialmente ogni cosa diventa un arma, e questo lei deve saperlo bene, perché mi ha fatto impacchettare come un salame, prima di volermi parlare."
Tacciono entrambi. Poi il primo a rompere il silenzio è Joe, che ha scribacchiato velocemente alcune parole su un blocchetto di carta. "Per oggi è sufficiente. Alla prossima seduta."
Una settimana ed il medesimo trattamento dopo, Bullseye e Keer sono di nuovo di fronte.
"Lei la volta scorsa ha detto di ricordarseli tutti, i suoi... lavori. Vero?"
"Sì, li ricordo tutti. Non sono ai livelli del serial killer di cui ho letto una volta su un giornale... quello che ricordava tutti i suoi omicidi dal colore degli occhi. O qualcosa di simile, boh. Ma mi ricordo bene tutte le persone che ho ucciso".
"Quindi, ad esempio, ricorda Kay Adams?".
"Le tagliai la gola con un pezzo del suo tavolino di vetro del soggiorno. Chi l'avrebbe mai immaginato che il senatore se la facesse con una ragazzina così giovane, eh?".
"Non mi sembra nella posizione di giudicare gli altri, onestamente."
"E lei invece? Si sente in quella posizione?".
"Io non sto giudicando nessuno".
"Oh, sì, invece. Lei sta giudicandomi. Io per vivere, uccido. Sembrerebbe un ossimoro, vero? Invece è solo una trasposizione di una legge di natura. Ubi maior, minor cessat. Selezione darwiniana, se vogliamo chiamarla così."
"Non credo che lo sterminio di una famiglia di innocenti, i Kewer, possa essere definito 'selezione darwiniana'."
"La loro casa sorgeva su un lotto dove la più importante famiglia mafiosa del New Jersey doveva costruire uno svincolo. Non hanno voluto venderla, non importava il prezzo. Hanno finito per ricevere 'un offerta che non si può rifiutare'". Il tono della voce in questa ultima frase di Bullseye era volutamente teso ad imitare il Padrino, ma Keer non sembrò gradire. Peccato, era uno scherzo che lo faceva sempre ridere, e che faceva ridere anche i suoi datori di lavoro, e per questo Bullseye ogni tanto lo riproponeva. Adorava le citazioni dai vecchi film di gangster o di mafia.
"E di Elektra Natchios, cosa mi dice?"
"Perché proprio lei?"
"Non tutti gli assassini possono includere nel loro curriculum la figlia di un ambasciatore greco, no?"
Bullseye si ferma, riflette. Quanto può dire e quanto può tenersi dentro? Alla fine, decide che non ha più molta importanza, dal momento che sono storie di tempi sufficientemente passati per preoccuparsene ancora.
"Nel mio lavoro, se non si ha un buon capo, non si è nessuno. Lei era un ostacolo fra me e Kingpin, che era un ottimo capo."
"Uhm, capisco. Ma il peggior ostacolo fra lei e Kingpin sembra essere un altro."
"Devil? Devil non è nessuno. Mi ha sconfitto, ma io sono ancora qui. E prima o poi uscirò da questa prigione, lo andrò a cercare e ucciderò anche lui".
"Però l'ha sempre sconfitta."
"Ma non mi ha mai ucciso. Ed è quella la sua debolezza. Io posso sempre tornare, finché lui non mi uccide. Se invece uccidi qualcuno, hai risolto quel problema per sempre."
"E lei come fa a definire una vita umana 'un problema'?"
Semplicemente qualcun altro paga perché io la definisca così."
Silenzio. Riflettono entrambi. E' una lunga partita a scacchi, e nessuno vuole sacrificare anche un solo pedone se non è strettamente necessario. Perché la vittoria alla fine potrebbe dipendere proprio dalle piccole cose.
"Per oggi penso possa bastare, alla prossima."
"La aspetterò con ansia, Doc."
Una settimana dopo.
"Lei parla di omicidi come se fossero giornate di lavoro, ma ha mai pensato a tutto quello che le singole persone potevano fare per il mondo e nel mondo? A tutto quello che non potranno più fare?"
"Dottor Keer, io le strappo solo al male a venire. E comunque io che cosa sono confronto a un dittatore africano? Loro massacravano in una sola esecuzione molte più persone di quelle che io ho mai ucciso in tutta la mia carriera. Ho visto le foto della... come la chiamano... 'pulizia etnica' in Ruanda. Facevano a pezzi le persone con un machete, e poi dividevano i pezzi in pile a seconda della parte del corpo. C'era una pila di gambe, una di braccia, una di tronchi umani ancora in vita, da bruciare successivamente. E la maggior parte di quei tronchi erano stati i vicini di casa di quelli che li avevano ridotti così, fino alla sera prima. E la stessa cosa è successa in Bosnia, e ricapiterà prossimamente in qualche altro cazzo di posto dove in questo momento stanno organizzando il barbecue per festeggiare le prime sere calde di primavera, ignari che alcuni di loro l'anno prossimo saranno la brace."
Una settimana dopo.
"Non può discolparsi semplicemente sostenendo che è il suo istinto che la spinge ad uccidere!"
"Doc, ognuno nella vita ha una missione. Io uccido. Lei dà la caccia a quel poco di buono che è rimasto dentro ognuno di noi per poi ributtarlo dentro. Perché per me la vera prigione è una vita dove solo il più forte sopravvive e spesso per sopravvivere ha bisogno di 'uccidere' il prossimo. Tra chi fa licenziare il collega per ottenere il suo posto, e me che lo elimino fisicamente, chi ha più compassione? E' più corretto far soffrire un animale condannandolo a morire di fame o ucciderlo con un colpo di pistola alla base del cranio?"
"Un essere umano non è un animale!"
"Tutti siamo animali, nel nostro profondo, Doc. Sta solo a vedere quanto di questa parte affiora in superficie. Nessuno di noi è disposto a recuperare qualcuno che sta affogando, quando va troppo a fondo."
"E allora che ne dice del fatto che io sono qui a cercare di recuperarla?"
"Deve essere qualcosa legato a un suo trauma giovanile; magari le hanno ucciso i genitori all'uscita del cinema, o un ladro ha sparato a suo zio, o suo padre è stato ucciso in un regolamento di conti della malavita. E allora lei si addossa questa croce, e cerca di recuperare le persone per evitare che altri bambini sopportino quell'orrore. Lei recupera. Io uccido."
Silenzio. Bullseye per un attimo sembra ripensare a quello che ha detto, poi improvvisamente la tensione sul suo volto si allenta. Dice a sè stesso che è solo un calcolo, per evitare che gli revochino la buona condotta, che prima o poi sarà più facile uscire, se allentano la sorveglianza. Ma la verità è che per la prima volta nella sua vita si è sentito in colpa per qualcosa.
"Scusi. Non volevo."
"Fa lo stesso. Rischi del mestiere. Alla prossima seduta".
La mattina presto di una settimana dopo, due guardie addormentano con il gas come al solito Bullseye. Al risveglio, però, lui è estremamente sorpreso. Non è legato, non è incatenato ad una parete, non è, almeno apparentemente, drogato. E' in una specie di cortiletto con i muri molto alti privi di qualsiasi tipo di appiglio, ed una porta sola, massiccia, in fondo. Tra lui e la porta, un tavolo ed il Dottor Keer.
"Buongiorno".
"Buongiorno, Dottore".
"Lei si starà chiedendo il perché di tutto questo, suppongo."
"Sì." Cosa sta facendo? E' accondiscendente?!? Potrebbe ucciderlo, aprire la porta e scappare. No, magari è una trappola. Meglio attendere che sia sempre l'altro a scoprire le carte per primo. Respiro Zen.
"Io sostengo che lei abbia comunque una perversa forma di onore, di rispetto, di gratitudine. Dopo questo periodo di terapia, la ritengo curato. Osservi bene. Sul tavolo è appoggiata una lametta da barba." Il piccolo oggetto scintilla debolmente alla luce dell'alba. "E' affilatissima, glielo garantisco. Lei può fare quello che vuole con quella lametta, uccidermi, tagliarsi le vene, aggiustarsi le unghie. Io non glielo impedirò. Al di là della porta, lei sarà libero. Niente guardie, nessuno. Sarà reinserito nel mondo che lei tanto odia e disprezza e dal quale lei sostiene di "proteggere" le sue vittime."
"E lei?"
"Io adesso mi volterò. E conterò fino a cinque. Poi mi girerò verso di lei, e lei sarà libero di fare quello che più crede giusto."
Silenzio. Sono le ultime mosse della partita. Bullseye osserva il dottore che con un sorriso amichevole sulla bocca si volta dandogli le spalle, e incomincia a contare.
"Cinque"
Bullseye si avvicina al tavolo, prende in mano la piccola lametta. La testa sul palmo di un pollice per accertarsi che sia affilata, e scopre che il Dottor Keer non gli ha mentito.
"Quattro"
Potrebbe ucciderlo assaltandolo alle spalle e sgozzandolo con la lametta. Però non avrebbe soddisfazione, perché ci sarebbe una colluttazione quasi sicuramente, e lui non può accertarsi che nessuno lo stia sorvegliando come diceva. Si avvicina alla porta, la apre e guarda fuori. Nessuno.
"Tre"
Quei maledetti occhiali scuri. Non ha mai incontrato lo sguardo del dottore, e se ne rammarica, adesso. Aspetterà che si volti per recidergli la carotide con un lancio secco della lametta. Lui è infallibile, lui è Bullseye. Lui non ha mai sbagliato un colpo.
"Due"
Però il Dottore era una buona persona, pensa. E subito dopo si chiede cosa cazzo sta pensando. E poi una considerazione sul fatto che sia il primo a fidarsi di lui. Tutti quelli che lo assoldavano sicuramente mettevano qualcuno alle calcagna pronto ad ucciderlo se si fosse rivoltato contro. Persino Kingpin, probabilmente. Invece il Dottor Keer adesso si sta fidando di lui. E come lui avrà aiutato altre persone. E altre potrebbe aiutarle in un futuro. E chi se ne frega. Le pile di braccia di gambe e di tronchi. Gli occhi delle sue vittime. Devil. Quel maledetto Devil. Il dottor Keen. Elektra. La lametta nella sua mano destra.
"Uno"
Il dottore non fa in tempo a voltarsi completamente, che il braccio di Bullseye reagisce di scatto, la lametta parte e lo colpisce alla gola. Nello stesso istante in cui il dottor Keer cade a terra tamponandosi la ferita, la porta si richiude alle spalle di Bullseye, di nuovo libero.
**********
Pochi minuti dopo, il Dottor Keer è disteso ancora per terra, mentre dalla porta entrano il direttore del carcere e alcune guardie.
"Lo sapevo che l'avrebbe fatto fuori, quel tipo di persone non cambia mai. E' stato un grosso rischio e un grosso errore. Anche per uno come Devil". Così dicendo, si avvicina al corpo riverso per terra, e con grande sorpresa nota che si rialza da solo, e si sfila la maschera da Joe Keer per far apparire quella più familiare del diavolo rosso. Ha una ferita appena superficiale alla gola, roba che la mattina può capitarti se non sei attento quando ti fai la barba, e che può benissimo essere curata da una matita emostatica.
"Accidenti, da quella distanza non credevo possibile schivare un colpo simile!"
"Lo credevo anche io, prima di essere costretto a farlo. Mi spiace molto di più ammettere che ho fallito, e che adesso Bullseye è libero per la città e mi toccherà andarlo a recuperare."
"Non darti pena, era giusto che tu avessi questa possibilità, dopo tutti i vostri scontri. Ora dò l'allarme, ed incomincia la caccia. Ancora una volta."
"Grazie per la comprensione, ma temo che sia una questione privata."
"Beh, se accetti un consiglio, stai attento. Lui uccide."
Devil esce dalla porta, e si ferma un attimo ad assaporare l'alba e l'aria fresca e tutto il mondo che ricomincia a vivere. Percepisce i poliziotti che si avviano verso le loro mansioni quotidiane nel carcere, e pensa che non dirà mai a nessuno che non è stato necessario per lui scansare il colpo.
Muove ancora alcuni passi verso il sole, che non può vedere ma sente sulla pelle come una iniezione di vita, e in un tono troppo basso perché possano sentirlo, risponde.
"Lui uccideva".
NOTE DEL SUPERVISORE
Quest’annual ha lo scopo di
celebrare il 40° anniversario dalla prima apparizione di due personaggi molto
diversi tra loro, ma che, ciò nonostante, hanno condiviso molti momenti della
loro storia editoriale (e personale): Devil e la Vedova Nera, apparsi per la
prima volta rispettivamente n Daredevil #1 e Tales of Suspense #52, entrambi
datati aprile 1964. Ed ora un po’ di sane note:
1)
Nella storia di Devil, i dialoghi delle
varie sequenze sono riprese fedelmente dagli albi dove furono pubblicati e per
la precisione: Devil alla Palestra Fogwell da Daredevil Vol 1°#1 (Devil, Corno,
#1), traduzione dello staff Corno; Suor Maggie da Daredevil #229 (FQ, Star,
#39) traduzione di Pier Paolo Ronchetti; Willie Lincoln da Daredevil Vol 1° #47
(Devil, Corno, #44), il Gufo da Daredevil Vol 1é #3 (Devil, Corno #43), per
entrambi, traduzione Staff Corno; Foggy Nelson da Daredevil Vol 1°# -1 (Devil
& Hulk #50); Karen Page da Daredevil Vol 2° #5 (Devil & Hulk #66),
entrambi con traduzione di Pier Paolo Ronchetti.
2)
Nella storia della Vedova Nera occorre
chiarire a quei pochi che non lo sapessero che Natasha ha fatto il suo esordio
in veste di villain in una storia di Iron Man
3)
Sempre su Natasha: la storia del
Progetto Quattro è stata narrata in Daredevil Vol 1° #88 (Devil, Corno, #89),
il suo legame con Harold Howard, è, invece, opera mia.
4) Per
quanto riguarda la Storia di Jack, cedo la parola direttamente all’autore:
“Per l'anniversario di Devil ho pensato di realizzare questo piccolo brano
dedicato al padre di Matt Murdock. Un ritratto di quest'uomo, del suo rapporto
con il figlio, la sua vita fatti di luce e buio (ogni scena è associata ad una
diversa luminosità legata allo stato d'animo di Jack). Non è un vero è proprio
racconto, più che altro è un collage di scene e pensieri messi assieme. Una
storia che deve molto alla caratterizzazione dell'uomo che viene fuori da Man
Without Fear (da cui ho preso in prestito anche alcuni dialoghi e anche una
frase che mi ha molto colpito in quella storia). Il mio è giusto un piccolo
contributo ai 40 anni di Devil e al lavoro che vi hanno fatto sopra tanti
grandi autori, tra i quali metto dentro anche Carlo Monni, a cui va il merito
di star gestendo alla grande questo personaggio sulle pagine di MarvelIT” (Xel
è decisamente troppo buono -_^)
5) La
storia di Karen è un giusto tributo al più grande amore di Matt e sono grato a
Valerio per averla scritta questa storia. Per quanto mi riguarda, considero
l’uccisione di Karen uno degli atti più gratuiti ed inutili della storia della
Marvel Comics e non perdono a Kevin Smith di aver ricercato questo
“effettaccio”
6) La
storia di Kingpin si svolge come continuity del personaggio, presumibilmente
prima della sua uccisione del Capo dei Capi di New York, Don Rigoletto,
mostrata in Daredevil: Man Without Fear e certamente dopo il suo famoso primo
omicidio (commesso in giovane età con un martello)
7) La
storia di Bullseye, che si svolge in vari intervalli tra Devil #31 e 34, ci
offre una prospettiva diversa sul nostro assassino preferito, ma diamo la
parola, al riguardo all’autore, Klaproth: “Solo un ringraziamento a Carlo
per avermi aspettato per una settimana anziché per le 48 ore che avevamo
concordato, e per avermi lasciato interpretare alla mia maniera uno dei villain
che preferisco. E' stato un piacevole divertissement in attesa dell'inizio del
mio Extreme Daredevil.Le notizie sul Ruanda sono tratte direttamente dai
verbali ONU, e sono, purtroppo, vere.”
8) A
proposito di Continuity, vale la pena di ricordare che l’apparizione dei personaggi in tempo reale
avvengono prima degli eventi descritti in Devil #34 e Marvel Knights 35
E questo credo che
sia tutto, gente. Ci si risente tra 10 anni. -_^
[1] In Iron Man #21
[2] Glavnoye Razvedovatel'noye Upravlenie (Direttorato Principale Informazioni), il Servizio Segreto dell’Esercito Russo (ed a suo tempo, di quello Sovietico)
[3] Komitet Gosudarstvennoi Bezopasnosti (Comitato per la Sicurezza dello Stato).Il mitico Servizio Segreto civile sovietico.
[4] Fatti narrati in Tales of Suspense #52 (Devil, Corno, #36)
[5] Ma interesserà di certo i lettori di Villains LTD tra non molto. -_^
[6] In Marvel Knights #14